Nel campo dell’operetta La vedova allegra (Die lustige Witve) rimane un capolavoro assoluto. Può attingere ad un pozzo infinito di magnifiche melodie che rimangono sorprendentemente fresche, piene di inventiva e di grazia a distanza di più di centodieci anni dalla sua composizione. Mettendo a confronto La vedova allegra con qualsiasi operetta viennese precedente, anche dei più grandi come Suppé, Johann Strauss, Zeller o Heurberger, rimaniamo sempre stupiti dalle virate, dalle svolte che la partitura prende quasi in ogni punto, e ciò si nota sin da subito nei passaggi trascinanti iniziali che preparano la scena di opulenza e trambusto dell’ambasciata pontevedrina a Parigi con colorazioni orchestrali che mostrano consapevolezza delle innovazioni di Puccini, Debussy e Richard Strauss. Nell’entrata di Hanna sono palpabili le trepidazioni dei corteggiatori e il fascino della sua personalità, mentre in quella di Danilo le tonalità sempre cambianti del verso singolo ritraggono all’istante la sua inaffidabilità, con la radiosa orchestrazione che rende stupendamente l’idea del piacere che lo scapolo incallito trova da Maxim’s. Nella scena del secondo atto in cui la relazione fra Camille e Valencienne raggiunge cime tempestose, la scrittura acquista una magnificenza, una grandeur quasi wagneriana. In moltissimi altri momenti si trovano tocchi orchestrali deliziosi, come ad esempio nel kolo balcanico alla festa di Hanna e nel ritornello della “Vilja” in cui Lehár evita la banalità accompagnando la linea vocale con un violino sostenuto dall’ondeggiante pizzicato degli archi arricchiti dalle tamburizze. Infine, la scrittura di Lehár contiene un erotismo senza precedenti nell’operetta, come nel celebre valzer del terzo atto in cui il violino e il violoncello si intrecciano simbolicamente.
Lo status di operetta par excellence, amatissima, canticchiata e fischiettata anche da parte di chi in un teatro d’opera non ha mai o quasi mai messo piede ha avuto l’ennesima riconferma in questa recita allestita dall’Accademia Giuseppe Verdi di Casciana Terme sotto la direzione artistica del basso Paolo Pecchioli nella piazza principale della cittadina termale, in un teatro all’aperto esaurito in ogni ordine di posti. Il “teatro” in realtà era poco più di una piattaforma con una passerella intorno alla buca dell’orchestra e le uniche vestigia di scenografia erano dei paraventi con figurazioni art déco; semplice ma efficace, soprattutto quando nei momenti di maggior frenesia e turbinio si proiettavano immagini anch’esse del periodo liberty così rapidamente da dare l’impressione di un effetto psichedelico. La regia di Emiliana Paoli, responsabile anche delle scene, era improntata alla tradizione e ispirata al periodo di maggior fulgore di Casciana Terme, ma l’evidente cura posta nell’interazione fra i vari personaggi e il perfetto tempismo delle varie gag (scelta quasi obbligata dal minimalismo scenico) le donavano una graditissima freschezza. Un antico adagio teatrale dice che quando i mezzi scarseggiano, investire in bellissimi costumi paga sempre. Parte integrante dello spettacolo erano le belle coreografie di Elisa Giovannelli: come se non ci fossero già abbastanza ballabili si è pensato di aggiungere il can can dell’hoffenbachiano Orphée aux enfers.
La vedova allegra ha due anime: quella malinconica, evanescente ritratto di un mondo al collasso, che infatti sparirà una decina d’anni più tardi con la prima guerra mondiale, e quella preponderante di commedia, se non addirittura farsa, carica di cliché di ogni genere (fraintendimenti, battute dai doppi senso). Il direttore Roberto Gianola, alla guida dell’Orchestra del Carmine di Firenze, pare aver voluto mettere in rilievo soprattutto quest’ultima, con una carica vitale inesauribile e contagiosa, pur non trascurando del tutto lo charme sensuale di molte pagine. Purtroppo, e qui attraggo l’attenzione sul limite più serio di tutta la recita, l’amplificazione (forse necessaria quando si canta e si suona in spazi non adatti a questo scopo) ha parzialmente impedito di capire e apprezzare le dinamiche orchestrali, ed ha indubbiamente falsato la percezione delle voci della compagnia di canto, formata da diversi artisti già fortunatamente apprezzati in condizioni acustiche migliori. Forse si sarebbe potuto trovare una soluzione di diversa amplificazione fra la parte musicale/vocale e quella recitata.
Quando si parla d’operetta si incorre sempre nell’annosa questione se sia preferibile assegnare i ruoli a attori/cantanti o a cantanti/attori. La natura stessa del genere, un misto di parti cantate, recitate, ballate, ove la predominanza spesso viene determinata dai tagli impartiti a ogni singolo allestimento, richiederebbe che ogni cantante fosse anche navigato attore comico, cosa impossibile soprattutto ai nostri giorni in cui il genere dell’operetta, tranne alcuni titoli, è stato praticamente emarginato. Con una compagnia di canto giovane come questa, il problema si fa ancor più spinoso. In quasi tutte le operette vi sono comunque ruoli che vengono meglio resi da ottimi attori che conoscano perlomeno i rudimenti del canto impostato ed altri in cui, al contrario, è imperativo avere dei bravi cantanti che sappiano anche recitare in maniera passabile; fra quest’ultimi nella Vedova Allegra includerei il ruolo della protagonista, ma soprattutto quello di Camille de Rossillon, a Casciana Terme interpretato da Angelo Forte, tenore lirico puro e forse anche più, a proprio agio nelle espansioni liriche e nell’ascesa verso il do acuto della stupenda romanza “Wie eine Rosenknospe” del secondo atto, il brano più “operistico” dell’operetta. L’altra voce “importante” era quella della protagonista, una Mirella Di Vita semplicemente squisita da un punto di vista vocale grazie ad un’ottima emissione, bel timbro ambrato, un canto sul fiato che le permetteva un affascinante gioco di legati e la morbidezza richiesta dalla canzone della “Vilja”, conclusa con un perlaceo Si naturale. Interpretativamente pareva prediligere (se non si è trattato di una scelta registica) il lato malizioso, arguto, sagace, con quel sorriso smaliziato di chi la sa lunga, piuttosto che quello di femme fatale misteriosa e trasudante glamour. Gli altri ruoli non hanno particolari esigenze di tipo meramente vocale: Simonetta Pucci si è rivelata una buona Valencienne nel solco del tradizionale soprano soubrette e Giampiero Cicino è stato assai convincente nella sua dignitosa e composta comicità in un ruolo, quello del Barone Zeta, più che altro parlato e privo di assoli cantati. Lehár scrisse il ruolo di Danilo per un tenore buffo, con caratteristiche quindi diverse da quello schiettamente lirico di Camille, anche se la partitura presenta linee vocali alternative per baritono (anzi, in realtà sarebbero i passi più acuti quelli opzionali), che spiegano come mai la pratica più diffusa sia divenuta quella di assegnarlo appunto alla corda media maschile. Qui si sono seguite le indicazioni di Lehár scegliendo un tenore brillante: Giampaolo Franconi, spigliato, dall’ottima dizione e in possesso del giusto physique du role, ha offerto in quest’occasione una prestazione infinitamente migliore che nel Matrimonio segreto dello scorso anno. Concludevano il numeroso cast, ciascuno portando qualcosa di individuale in un lavoro d’ensemble dove farsi notare vocalmente non è facile, Michele Pierleoni con il bel timbro baritonale (Cascada), il gradevole timbro da tenore leggero di Didier Pieri (Raoul de St-Brioche), Augusto Lombardini (Bogdanowitsch), Filippo Pochini (Pritschitsch), Onada Giomi (Sylviane), Lilla Tarantola (un’Olga deliziosamente improbabile), Lucia Bartalesi (Praskowia ) e Massimo Dolfi (Kromow) che è riuscito ad emergere grazie alle battute riservate al suo personaggio. Impagabile il contributo attoriale di Stefano Pecchioli nei panni di un Njegus più giovanile e aitante del solito. Impareggiabile il contributo del Coro Schola Cantorum Labronica di Livorno diretto da Maurizio Preziosi.
L’operetta è stata presentata nella versione italiana popolare di Ferdinando Fontana, con i dialoghi che, pur ridotti all’osso, riuscivano comunque a mantenere comprensibile la vicenda. Il teatro, tutto esaurito, ha decretato un enorme successo all’intero allestimento.